Come nasce la nostra particolarissima esperienza del mondo? Domande eterne, di cui tradizionalmente si cercano le risposte nella filosofia e nella religione. E su cui oggi anche la scienza che prova a dire la sua. E come è naturale, lo fa andando a indagare l’organo principe dell’organismo umano: il cervello, e in particolare la sua evoluzione. Per farlo, una ricerca di Yale, a cui ha partecipato anche l’università di Pisa, ha messo a confronto il cervello umano con quello dei nostri parenti più prossimi, grandi scimmie e altri tipi di primati non umani, analizzando in particolare quali geni venissero espressi nelle diverse regioni del sistema nervoso centrale. Per scoprire in che modo il nostro dna, così simile a quello delle altre scimmie (le differenze tra l’uomo e lo scimpanzé non raggiungono il 2% del materiale genetico codificante) dia origine a cervelli tanto differenti. E i primi risultati di queste ricerche, appena pubblicati sulle pagine di Science, hanno già permesso di effettuare alcune scoperte interessanti.Come raccontano gli autori dello studio, la ricerca ha avuto inizio da un’analisi comparativa. 16 aree del cervello umano, di quello degli scimpanzé e del cervello dei macachi sono state indagate a fondo alla ricerca di differenze nell’espressione genica, il processo in cui le informazioni contenute nei geni vengono convertite in proteine. I risultati hanno messo in luce importanti similitudini tra l’uomo e i suoi parenti più prossimi. Ma anche alcune profonde differenze. In particolare, nel cervello umano è risultato molto più espresso un gene noto come tirosina idrossilasi (Th), che svolge un ruolo nella sintesi del neurotrasmettitore dopamina.
Allargando quindi l’analisi a un numero maggiore di specie di grandi scimmie, è emersa la possibile spiegazione: nella neocorteccia umana, la parte più recente del cervello da un punto di vista evolutivo, sono presenti interneuroni dopominergici (i neuroni che utilizzano come principale neurotrasmettitore la dopamina), assenti invece in quella delle grandi scimmie. “Si tratta di una scoperta interessante, perché i circuiti dopaminergici sono coinvolti in molte importanti funzioni cognitive, nella regolazione dell’umore e nel funzionamento della memoria di lavoro”, ha raccontato a Wired Marco Onorati, ricercatore del dipartimento di biologia dell’Università di Pisa che ha collaborato allo studio. “Si tratta inoltre di cellule che risultano compromesse in alcune forme di Parkinson e altre malattie neurodegenerative come la demenza a corpi di Lewy, e questo lascia ipotizzare che gli interneuroni dopaminergici identificati nel nostro lavoro svolgano un ruolo importante per lo sviluppo delle funzioni cognitive superiori”.
Abbiamo dunque svelato tutti i segreti del cervello umano? Certamente no – avverte Onorati – ma si tratta di un primo passo importante verso la soluzione di questo puzzle. “Quelli ottenuti fin’ora sono solo i primi risultati di questo studio, che ha messo in luce centinaia di geni espressi differentemente nel cervello umano e in quello dei nostri parenti più prossimi, ma – rivendica il ricercatore – si tratta certamente di risultati importanti, che iniziano a gettare luce sui processi evolutivi che hanno modellato lo sviluppo del nostro cervello”.
La strada è aperta, dunque, e i prossimi passi sono chiari. E può darsi che un giorno, proprio analizzando le differenze emerse in centinaia di altri geni e in diverse aree del cervello (e quelle che certamente emergeranno in futuro da nuove ricerche), la scienza riuscirà a rispondere finalmente alla domanda delle domande: come è nato il nostro cervello, e cosa ci rende realmente umani.