Storia

La secolarizzazione degli ordini cavallereschi

Serie "Nobiltà e Cavalleria" #05

Gli ordini cavallereschi vennero così progressivamente a connotarsi come religio, cioè come associazioni o comunità aventi per capo un Magister Magnus.

Se i membri della religio facevano professione di fede e di seguire una determinata regola monastica approvata dai Pontefici, divenivano frati, con i relativi obblighi di indossare un certo abito, combattere contro gli infedeli, scortare i pellegrini che andavano ai luoghi santi, porsi negli ospedali dell’ordine a servizio dei malati. In tal caso, gli ordini assumevano il nome di Sacra Religio: un cavaliere del Cristo, cioè, si onorava di portare l’abito perché faceva così mostra della sua devozione alla Chiesa.

Altre volte, gli ordini richiedevano invece per l’ammissione la prova del possesso nei membri di determinati requisiti di nobiltà ( i così detti quarti, da 4 a 16, a seconda della nazionalità e dei tempi ), e allora prendevano il nome di Sacra Religio et Ordo Militaris ( Militaris in quanto derivato da miles, cavaliere, nel senso feudale di cavaliere di nascita – di nobiltà titolata – in contrapposto a Equestris, da eques, cavaliere di elezione, tale cioè per aver ricevuto da altri siffatta qualità, ma non per nascita ).

Anche oggi negli ordini militari il possesso dei requisiti di nobiltà determina una differenziazione di categoria, per cui si hanno cavalieri di giustizia, di questa specie per aver prodotto prove nobiliari, e cavalieri di grazia o magistrali, senza prove ma così creati per grazia del Gran Maestro.


Dopo la rivoluzione francese, gli ordini cavallereschi persero il carattere di Sacra Religio, cioè di sodalizi a un tempo monastici e guerrieri, e divennero ordini di merito, cioè persone giuridiche o enti morali consistenti in raccolte di persone cui era conferita una decorazione in ricompensa di benemerenze acquisite per meriti civili, militari o burocratici, per prestazioni rese a vantaggio della collettività, del Capo dell’Ordine o del Sovrano, della Chiesa Cattolica o dell’Ordine stesso.

Tuttavia, la secolarizzazione degli ordini equestri avvenuta in molti paesi Europei per l’esigenza di adattare l’istituzione cavalleresca allo spirito moderno o a mutate situazioni istituzionali, finì per generare solamente confusione storica e pasticci giuridici, in quanto rappresentò nulla più che un’incongruenza e una contraddizione.

A sottolineare l’enunciato, si riporta un significativo passo di S.S. papa Pio XII tratto dal Discorso ai Cavalieri del 15 gennaio 1940:
“ Molto prima che le Nazioni fossero giunte a stabilire un diritto internazionale l’Ordine di San Giovanni aveva riunito, in una fraternità religiosa e sotto una disciplina militare, uomini di otto lingue diverse, votati alla difesa dei valori spirituali che custodiscono l’appannaggio comune della Cristianità: la fede, la giustizia, l’ordine sociale e la pace ”.

Con riguardo alla fonte dell’investitura, gli ordini cavallereschi possono essere divisi in ordini statuali e pontifici da una parte e in ordini indipendenti dall’altra: per quanto concerne i primi, si tratta di ordini istituiti o la cui Gran Maestranza è detenuta dal Sovrano, dal Capo dello Stato o dal Pontefice – le cui potestà, cioè, sono sovrane da un punto di vista territoriale o spirituale.

Gli ordini indipendenti, invece, sono tali per esclusione, in quanto, cioè, non siano creati o detenuti in gran maestranza da sovrani o da capi di stato ( ancorché i capi di detti ordini discendano da ex case sovrane o derivino il loro potere da antiche concessioni fatte da pontefici, dalla effettuata ricostituzione di antichi ordini estinti, ovvero, nell’ambito degli ordini di nuova concezione, dalla elezione fatta dai loro membri ).

Gli ordini indipendenti possono essere quindi costituiti – anche se la forma giuridica più frequente di essi è l’ente o l’associazione non riconosciuta – in persone giuridiche private, il cui eventuale riconoscimento, previsto dall’art. 12 del codice civile del 1942 , riguarda la loro esistenza giuridica come ente collettivo, avente vita propria nonché, secondo quanto fissato dai rispettivi statuti, fine lecito non contrastante con l’ordinamento giuridico ( ossia vita distinta da quella dei propri componenti ): gli ordini c.d. indipendenti hanno per capo un Gran Maestro e risultano costituiti dalla unione di più persone per il raggiungimento di fini religiosi, sociali, assistenziali, di beneficenza, filosofici, culturali o filantropici.
È comunque da escludere che il riconoscimento di esistenza giuridica importi l’ammissione che l’attività da essi svolta sia ritenuta conforme a quella dello Stato, o sia da questo in qualche modo avallata.

La nobiltà proviene dall’animo: è ciò che uno compie a renderlo nobile. Non dobbiamo confondere nobiltà con titolature che sono diventate il “ coronamento ” di una nobiltà preesistente, anche se il poter dimostrare d’avere un cognome illustre e di appartenere a una famiglia nobile, è sempre stata questione di grande importanza.

In Italia, prima del 1861, esistevano varie fonti nobilitanti, ciascuna con criteri e principî propri ai numerosi Stati che formavano l’assetto politico del nostro Paese. Le famiglie o le persone accertate come nobili dalla Consulta Araldica del Regno furono circa 8000.
Altre 170/200 sono state riconosciute o nobilitate, fra il 1948 e il 1983, anno della sua morte, da Sua Maestà re Umberto II.
Altresì, si calcola che ci siano oltre 2000 famiglie in possesso di titoli non genuini o convinti d’esser nobili.

I falsi nobili o titolati artefatti sono coloro che equivocano sul reale e non acclarato stato di nobiltà e ostentano stemmi e corone ottenute nel tempo oppure, oggi, da “ principi ” dalle pretensioni fantasiose: vi è infatti una società dei simboli e delle esteriorità dove un determinato tipo di aggregazione esclusiva può essere d’ausilio a una migliore relazione sociale.

Un tempo, le famiglie nobili venivano ad accentrare in se stesse le alte cariche e il governo delle genti locali: è difficile definire con esattezza il ruolo storico della nobiltà, perché per un certo periodo gli avvenimenti dipendevano unicamente da tale ceto e allo stesso vanno quindi imputati eroismi e virtù come ogni sorta di orrore.
Perciò, la nobiltà ha un senso ed è realmente attuale solo se unita all’esercizio di un vivere sociale adatto a quei valori a cui nobiltà e cavalleria facevano tradizionalmente riferimento.

Il Sovrano fu ed è la fonte prima ed esclusiva del diritto e degli onori ( quod principi placuit legis habet valorem ), e gli si accentrano tutte le più alte prerogative il cui complesso viene indicato con l’espressione “prerogative della corona”:

  • jus imperii, cioè la potestà di comando;
  • jus gladii, vale a dire il diritto all’obbedienza da parte dei sudditi;
  • jus majestatis, cui consegue il diritto a ricevere difesa e onori;
  • jus honorum, cioè il diritto di premiare, concedere onorificenze, dignità nobiliari e cavalleresche, o la facoltà di investire altri della potestà di concedere tali onori.

In Italia, attualmente, la concessione del titolo nobiliare non è prerogativa dello Stato ma avviene in virtù dei meriti riconosciuti alla persona attraverso l’esercizio delle prerogative sovrane di coloro che, secondo la storia, il diritto o l’accertamento giurisdizionale, ne hanno la giuridica titolarità: tale concetto è stato assunto in ogni tempo dalle Case già Regnanti che hanno perso il trono a seguito di occupazione definitiva del territorio, nel qual caso ove manchi la debellatio e i principi siano in regola con le regole che ne disciplinano la successione – sorge la figura del principe pretendente al trono.

Un Sovrano, ancorché abbia abbandonato il suolo Patrio, conserva intatte alcune prerogative che può continuare a esercitare, mentre altre sono sospese: secondo il diritto internazionale e la magistratura, non c’è dubbio che fra le prerogative che conserva integre sia compreso il jus honorum, cioè il diritto di concedere titoli nobiliari e dignità onorifiche di ordini cavallereschi che facciano parte del patrimonio della Corona.. Ne consegue che un titolo nobiliare (con predicato, qualifica e stemma) concesso oggi, se meritato, non diverge concettualmente da quelli assunti nei secoli trascorsi (ancorché dativo e non nativo), e ciò perché emanazione della prerogativa sovrana (rex tantum nobilem facere potest ): il suo uso, la sua trasmissione, &c., sono regolati dall’atto esecutivo del decreto d’investitura, vale a dire dalle “ Lettere Patenti ”.

Infatti, le sentenze che accertarono nei vari discendenti delle diverse dinastie la qualità nativa di pretendenti al trono riconobbero loro, per ciò stesso, la prerogativa di concedere titoli nobiliari e cavallereschi degli Ordini di pertinenza della propria Casa sovrana.

Per giungere a tale conclusione, la magistratura italiana si trovò nella necessità di risalire sino agli antichi ordinamenti e muovere, così, dal Medioevo, quando, nel pieno vigore del sistema feudale e nel successivo suo frazionamento in monarchie autonome, il fenomeno giuridico, collegato prevalentemente a norme non del tutto e uniformemente statuali, venne ad assumere una particolare fisionomia. Con lodevole diligenza, fu ricostruito in maniera storicamente puntuale l’ingenerarsi della sovranità come elemento essenziale dello Stato quale persona giuridica; della sovranità del Principe e delle prerogative dinastiche; dello status particolare di cui gode un Sovrano, ancorché detronizzato, in quanto giuridicamente riconosciuto e tutelato dal diritto internazionale in cui necessariamente la sua figura si colloca, purché non debellato; della pretendenza al trono e dei diritti del principe ereditario.

Singolare e meritevole l’impegno profuso dalla nostra magistratura anche per la disamina di nozioni sconosciute all’attuale ordinamento repubblicano, che prevede che i titoli nobiliari (qualifiche e prerogative annesse) – privati del loro valore giuridico e, quindi, non più soggetti di diritto pubblico – rimangano in vita solo quale reminiscenza storica e con quel valore sociale loro derivante dal perdurante costume .

Da rilevare che i pronunciamenti poterono aver luogo solo collegando il particolare status del Sovrano e le sue prerogative e pretensioni, non tanto all’ordinamento repubblicano – che risulta indifferente all’uso del titolo nobiliare – quanto al diritto internazionale: “ Le prerogative sovrane, di natura personale, non abbisognano di ratifiche o riconoscimenti di sorta, per queste non è applicabile la disposizione XIV delle Norme Transitorie della Costituzione della Repubblica Italiana, che non riconosce i titoli nobiliari. E ciò in quanto tale norma vale solo per i titoli sorgenti da concessione, conferiti ai sudditi o cittadini di una nazione, ma non alle qualità sovrane, che nascono come diritto di sangue ”.

Tali sentenze, anche perché pronunciate in periodo repubblicano, destarono l’attenzione di eminenti commentatori e giuristi ( come del Professor E. Furnò, Rivista Penale del 1961, con l’imprimatur del Professor E. Eula, primo Presidente della Corte di Cassazione, e del Professor F. Ungaro, storico e giurista insigne; o del Professor G. A. Pensavalle De Cristofaro dell’Ingegno, “Questioni al vaglio della Magistratura ” ), dai quali, passim, riporto:
“ Il rigore di questa teoria, che ribadiva gli antichi insegnamenti sui diritti sovrani del Principe, confermandone la natura personale, la perpetuità e la ereditarietà, si venne via via attenuando in quella del “ diritto di pretesa ” ( o pretenzione ), per cui il Principe, se spodestato, conserva la valida pretesa ad ottenere l’effettivo esercizio del potere sul territorio, del quale fu privato. Questo più pacato indirizzo trova ancor oggi consensi.

“ Richiamandosi a scrittori recenti, quali Nasalli Rocca di Corneliano, G.B. Ugo, Bascapè, Gorino Causa, e Zeininger, scrive Renato de Francesco: “ La teoria del legittimismo, sfrondata delle estreme conseguenze alle quali l’hanno condotta alcuni suoi sostenitori, ed intesa invece come un diritto di pretesa, che nel Sovrano ex regnante resta, anzi inerisce in lui “ jure sanguinis ” e per diritto “ nativo ” in perpetuo, è perfettamente accettabile e soddisfa le esigenze dei giuristi e le coscienze dei popoli, anche in questo secolo dinamico ed eminentemente rappresentativo in campo politico ”.

“ In campo internazionale la “ sovranità ” non risulta attribuita esclusivamente allo Stato, comunque concepito. Lo dimostrano significativi esempi, di cui il più illustre e convincente è quello offerto dal Romano Pontefice, Capo della Chiesa Cattolica. Ridurre la figura del Romano Pontefice a quella di Capo dello Stato Città del Vaticano, significherebbe non solo sminuirne, ma addirittura negarne l’esistenza. E sarebbe sostenere cosa inesatta proprio sul piano internazionale. Il Romano Pontefice, quale Capo della Chiesa Cattolica, ha la massima potestà sovrana insita proprio nella Sua persona; tanto è vero che, nella vacanza della Sede Apostolica, nessun soggetto subentra né poterebbe subentrare nel sommo potere che trapassa direttamente al successore del Pontefice per una continuità morale. In Questo caso – è evidente – che la “ sovranità ” inerisce alla persona fisica e la segue comunque, non essendo vincolata al territorio, che invece per lo Stato costituisce elemento essenziale. Ovunque sia, il Romano Pontefice è Sovrano nella pienezza di tutti i suoi poteri e tale è riconosciuto non solo da i molti milioni di fedeli, sparsi nel mondo, ma anche da molte e potenti potenze estere, come dimostra il periodo storico dal 1870 al 1929, durante il quale, pur avendo Egli perduto il territorio dello Stato, conservò intatto il Suo alto prestigio nelle relazioni internazionali. La stessa Italia, dopo l’annessione di Roma, ne riconobbe la particolare posizione con la Legge 13 maggio 1871, n. 214, detta “ delle Guarentigie ”.

“ Il Pontefice prima del 1870 riuniva in sé la duplice qualità di Capo dello Stato Pontificio e di Capo della Chiesa Cattolica, venendo ad essere così l’organo di due specie di rapporti con gli Stati: rapporti di natura religiosa come Capo della Chiesa, e rapporti di natura giuridica e politica come Capo dello Stato Pontificio. Quindi nella Sua duplice qualità egli era fonte della Nobiltà da lui creata ”.

“ Nel 1870 il Pontefice fu privato del potere temporale e solo nel 1871 gli furono resi dal Governo italiano nel territorio del Regno gli onori sovrani, mantenute le preminenze d’onore riconosciutegli dai Sovrani cattolici, concesse tutte le prerogative onorifiche della sovranità e tutte le immunità necessarie per l’adempimento del Suo Altissimo Ministero. Se non ché tra queste prerogative onorifiche, di una delle più rilevanti, perché integra uno dei più importanti attributi della Sovranità, quella di concedere titoli nobiliari e onorificenze cavalleresche, non venne fatta menzione nella legge, per cui sorse il problema se il Pontefice avesse, anche dopo la caduta del potere temporale, la facoltà di conferire titoli nobiliari.

“ In proposito è bene ricordare che, anche prima del 1870, non sempre il Pontefice conferiva le onorificenze ed i titoli nobiliari nella sua qualità di Capo territoriale dei Suoi Stati, dato che anche quando faceva concessioni a stranieri, Egli agiva nella Sua qualità di Capo spirituale della Chiesa, e per ricompensare benemerenze verso la Chiesa ”.

“ La posizione del Sovrano spodestato si porta necessariamente sul piano internazionale, perché soltanto qui trova la sua concreta giustificazione, storica e politica, i cui motivi non sempre coincidono con quelli della sua giustificazione astratta, filosofica. Ed il problema giuridico si risolve in via positiva più che filosofica, considerando più la realtà, storica e politica, che non le spinte ideali, pur avendo queste ultime indiscutibile valore. Ma la realtà storica, cioè l’attualità del fenomeno, è la forza prevalente nelle relazioni internazionali, poiché ne influenza l’aspetto giuridico con la sua massa di vitali interessi ”.

“ La posizione del Sovrano spodestato trova tutt’ora sul piano internazionale elementi affermativi di non trascurabile importanza, perché concreti ed univoci. Il primo elemento è dato dal trattamento riservato al Sovrano ex regnante da parte dei Sovrani regnanti che ne accettano e rispettano le prerogative, portate dal diritto di nascita e di sangue. Il secondo elemento significativo proviene dall’atteggiamento degli Stati nei confronti delle Dinastie, da essi detronizzate. Di regola viene disposto l’allontanamento e vietato il ritorno del Sovrano ex regnante e dei suoi discendenti. E la possibile revoca di tale deliberazione richiede di massima la rinuncia al diritto di pretensione da parte del Sovrano spodestato. Tranne, si comprende, il caso di restaurazione. Con l’ordine di allontanamento e con il divieto di ritorno, imposti alla Famiglia ex regnante, lo Stato interessato, è vero, afferma la sua sovranità e nel contempo nega quella della Dinastia detronizzata, ma è anche vero che ne riconosce la pretesa. Se così non fosse, i provvedimenti presi dallo Stato non avrebbero senso. Né avrebbe senso subordinare alla rinuncia dei diritti di pretensione il ritorno in patria del Pretendente e della Famiglia. Sarebbe infatti assurdo chiedere la rinuncia ad un diritto inesistente ”.

“ L’allontanamento ed il divieto di ritorno, imposti alla famiglia ex regnante; la pacifica restaurazione della monarchia, voluta dallo Stato interessato; la concessione del ritorno in Patria, subordinata ai diritti di pretenzione, fanno sempre capo ad un atto giuridico, che, nel primo caso, è atto unilaterale di imperio, ma che, negli altri due, si risolve in un accordo di volontà fra due distinti, pari soggetti. La parità dei soggetti è posta in luce sia dall’indipendenza di ciascuno dei due rispetto all’altro sia dall’oggetto dell’accordo, che risolve il contrasto fra due pretese alla medesima sovranità. Contrasto, che, nel caso di restaurazione, si risolve a favore del pretendente, mentre, nel caso della rinuncia ai diritti di pretenzione ( compiuta debellatio ), si chiude a favore dello Stato ”.

“ Il patrimonio araldico dinastico, come già è stato posto in rilievo, sfugge all’ordinamento statuale, ancor quando il Sovrano è regnante, cioè Capo di Stato. A maggior ragione vi sfugge, quando il Sovrano non regna più e lo conserva, ovunque si trasferisca, esclusivamente per sé e suoi discendenti. Data la sua natura, non è pensabile che cada nella sfera di un qualunque ordinamento statuale o si trasferisca da un ordinamento all’altro, trasformandosi di volta in volta, a seconda del contenuto e dei limiti, portati da ciascuna cittadinanza; e che magari perisca per poi risorgere a seconda delle diverse legislazioni.

La magistratura italiana, nella commistione fra ordinamento repubblicano e norme del passato ordinamento nobiliare, adattò i diritti e le successioni nobiliari alla normativa vigente.
Ne consegue:

  • il diritto di tutti i discendenti, maschi e femmine, alla trasmissibilità di qualunque prerogativa, titolo, qualifica o predicato, risultanti legittimamente in capo all’intestatario, senza tenere in alcun conto – in contrasto con l’art. 40 del R. D. 7 giugno 1943, n. 651, approvante il nuovo Ordinamento dello Stato Nobiliare Italiano, che prevede la successione nei titoli unicamente per l’agnazione maschile – le condizioni di trasmissibilità indicate nell’originaria concessione;
  • quanto accertato viene considerato valido ai fini dello stato civile non con valore di titolo o predicato ma come parte del cognome;
  • prevalenza, nella successione nei titoli, del grado sulla linea ( in contrasto con l’art. 54 del R. D. 14 giugno 1928, n. 1430, che, nella successione dei collaterali, preferiva la linea sul grado );
  • possibilità di prova fornita per via giudiziaria del legittimo possesso di un titolo ( ipotesi esclusa dall’ordinamento nobiliare );
  • diritto al Sovrano spodestato di concedere titoli, trasmissibile ai successori purché non debellati ( e non incentrato esclusivamente nel Sovrano già regnante, la cui posizione particolare è sottesa alla mancata rinuncia alla pretensione, che gli Stati ove le Dinastie hanno esercitato le loro sovrane prerogative non possono vanificare se non ottenendo il volontario abbandono del diritto, cioè rendendo perfetta ladebellatio ).

Tutto ciò denota che il Sovrano spodestato conserva un ben preciso diritto, basato sull’ereditarietà, che in concreto si identifica nella pretenzione al trono perduto, ciò che lo legittima a conferire i titoli nobiliari, onorificenze e distinzioni cavalleresche appartenenti al patrimonio araldico della dinastia. Tali diritti sono connaturati al concetto di “ Sovranità ”, sia pure allo stato potenziale, secondo il principio formulato dalla teoria del legittimismo. Invero, essi costituiscono un autentico “ privilegio ”, il quale non può avere altra teorica giustificazione al di fuori della “ Sovranità ” intesa come “ qualità personale del Principe ”.

La magistratura italiana riconobbe quindi il jus honorum ai Sovrani spodestati e ai loro discendenti, purché non debellati e in regola con le disposizioni regolanti la successione secondo il rispettivo ordinamento.

Lo Stato, nei limiti della sua influenza ( cioè del territorio nazionale ), può vietare al Sovrano spodestato l’esercizio dei suoi diritti, ma questo atteggiamento altro non rappresenta che un ulteriore indice del riconoscimento della particolare posizione della dinastia non debellata.

La rinuncia alla pretenzione, per essere valida, non deve essere necessariamente sancita da atto scritto, ma, secondo consolidata giurisprudenza, acquista rilevanza giuridica anche se manifestata con un semplice atto di pubblico omaggio al capo dello Stato subentrato ( in quanto declaratoria di sottomissione e implicito riconoscimento di altra sovranità, della quale, con tale atto, cessa la contestazione ): la debellatio, in quanto ricompresa nella sfera dei diritti disponibili, proietta i suoi effetti anche sulla futura discendenza.

Il Conte di Parigi, pretendente al trono di Francia, dovette abdicare ai diritti di pretensione per essere autorizzato a risiedere in patria. Ciò gli è stato richiesto dalla repubblica francese, che nel 1886 aveva allontanato la Famiglia già regnante. Il ritorno in Austria del principe Otto d’Asburgo, pretendente al trono, si è consentito solo in quanto il Principe pubblicamente rinunciò ai suoi diritti di pretenzione.

La Repubblica italiana, nata dai brogli del referendum istituzionale del 2 giugno 1946, privò i membri e discendenti di quel ramo di Casa Savoia, già regnante, dei diritti elettorali, attivi e passivi; ne precluse l’accesso ai pubblici uffici; all’ex Re, alle consorti e ai discendenti maschi furono vietati l’ingresso e il soggiorno nel territorio nazionale ( Sua Maestà la regina Maria Josè poté far ritorno in Italia dopo che le fu riconosciuto il status di vedova non più consorte ).

Anche in quest’ipotesi, pure ammettendo che colui che nacque come S. A. R. Vittorio Emanuele di Savoia, principe di Napoli, non fosse ancor prima decaduto dalla successione al trono per le inequivocabili manifestazioni di volontà di S. M. re Umberto II, si è consentito il rientro in Italia dei discendenti dell’ultimo, compianto, re d’Italia solo a seguito della dichiarazione di fedeltà alla repubblica italiana da parte di Vittorio ed Emanale Filiberto di Savoia e, quindi, di pubblica rinuncia ai diritti di pretenzione.

Per chiarezza, ciascuna Casa Sovrana che abbia esercitato la sovranità su tutto o parte il territorio della penisola italiana vanta gli stessi diritti su di esso. Questa lunga premessa vale a dimostrare l’assunto secondo cui, per il diritto internazionale, la concessione nobiliare prescinde da rapporti costituiti con la cosa pubblica e con la Patria di appartenenza del concessionario, per essere riservata a persone distintesi per azioni rivolte a favore della Casa Sovrana, per atti indipendenti di valore e di carità o per il riconoscimento di benemerenze, conseguite privatamente o pubblicamente, che abbiano toccato la sensibilità del principe pretendente.

Pertanto, una casata principesca, già sovrana, mantiene sempre il carattere di dinastia, il cui attuale Capo di Nome e d’Arme conserva titoli, prerogative e spettanze dell’ultimo sovrano spodestato, con il nome di principe pretendente, abbia ora il trattamento di Altezza Imperiale, Altezza Reale o di Altezza Serenissima.

Quindi, la giurisprudenza italiana degli scorsi decenni ha statuito che i discendenti di qualsivoglia dinastia non debellata posseggono la fons honorum, e se è pur vero che le sentenze fanno stato solamente fra le parti, i loro eredi o aventi causa, è altrettanto indiscutibile il valore di precedente che le decisioni assumono nei confronti d’ogni caso analogo rispetto a una determinata dinastia.

A tal proposito, riproduco, a mero titolo d’esempio, estratti di sentenze emanate in epoca Regia e repubblicana riguardanti case sovrane che ottennero l’avallo della giurisprudenza: Focas Flavio Angelo Ducas Comneno De Curtis di Bisanzio Gagliardi; Lascaris Comneno Flavio Angelo Lavarello Ventimiglia di Turgoville; Paternò Castello di Carcaci; d’Altavilla ( seu d’Hauteville ) Sicilia Napoli ( innumerevoli sono le pronunce riguardanti altre Case Sovrane, fra cui Amoroso d’Aragona, &c. ).

Così, S. A. I. Don Antonio Focas Flavio Angelo Ducas Comneno De Curtis di Bisanzio Gagliardi, Porfirogenito della stirpe costantiniana dei Focas Angelo Flavio Ducas Comneno, nato a Napoli il 15 febbraio 1898 e deceduto in Roma il 15 aprile 1967, principe imperiale di Bisanzio, principe di Cilicia, principe di Macedonia, principe di Tessaglia, principe di Ponto, principe di Illiria, principe di Moldavia, principe della Dardania, principe del Peloponneso, &c. &c., duca di Cipro, duca di Epiro, duca e conte di Drivasto e Durazzo, &c. &c., fu confermato dalle sentenze 18-07-1945, n. 475, IV Sezione, del Regio Tribunale Civile di Napoli, e 07-08-1946, n. 1138, IV Sezione, del Tribunale di Napoli ( repubblica italiana ), erede di Costantino I Magno Imperatore e discendente legittimo della più antica dinastia imperiale bizantina vivente. Infatti, la Regia sentenza 475/1945, cit., decise che il principe Antonio De Curtis-Gagliardi è “ discendente diretto mascolino legittimo della famiglia imperiale dei Griffo-Focas ( … ), con gli onori e diritti di Conte Palatino, oltre agli altri titoli, onori e diritti che gli competono per la predetta discendenza. ”

La sentenza 1138/1946, cit., ordinò all’ufficiale dello stato civile di Napoli di rettificare l’atto di nascita di Antonio De Curtis-Gagliardi, annotando in calce allo stesso atto che “ compete al neonato la qualifica di Principe ed il trattamento di Altezza Imperiale, quale rappresentante, in linea diretta, mascolina e legittima, della più antica dinastia imperiale bizantina vivente. ” In seguito, il tribunale di Napoli, con sentenza 01-03-1950, definì S. A. I. Antonio “ erede e successore delle varie dinastie bizantine dell’Imperatore Costantino il Grande, ” ordinando all’ufficiale dello stato civile di Napoli di rettificare l’atto di nascita del Principe “ nel senso che vi si legga: Focas-Flavio-Angelo-Ducas-Comneno De Curtis di Bisanzio Gagliardi Antonio. ” La citata sent. 1138/1946 ordinò “ altresì all’Ufficiale dello Stato Civile di Roma di annotare in calce all’atto di nascita della figlia del Principe Antonio De Curtis, a nome Liliana, la qualifica di Principessa. ”

Infine, con sent. 1° marzo 1950, il tribunale civile di Napoli, IV sezione, ordinò “ all’ufficiale dello stato civile di Roma di procedere a simile rettifica del cognome della Principessa Liliana de Curtis Griffo Focas, figliuola di detto Principe Antonio ”, nel senso che vi si legga “ Focas Flavio Angelo Ducas Comneno De Curtis di Bisanzio Gagliardi, ” e affermò che “ gli Imperatori Bizantini erano successori ed eredi di tutti i diritti despotali, onori e titoli degli Imperatori che li avevano preceduti. Pertanto, non v’ha dubbio che il ricorrente, quale unico erede e successore vivente delle varie dinastie bizantine, dall’Imperatore Costantino il Grande in poi, riassumendo nella sua persona tutti i diritti, onori e titoli che essi godevano, abbia anche il diritto incontestabile di riprendere tutti i titoli di cui le loro famiglie si fregiavano.

Analoghe considerazioni valgono per lo stralcio della sentenza 10-09-1948, n. 5143 bis, n. 23828/48 R. G., della VII sezione della pretura di Roma, che riconobbe a Sua Altezza Imperiale il principe Don Marziano II Lascaris Comneno Flavio Angelo Lavarello Ventimiglia di Turgoville la spettanza dei titoli di Basileus titolare di Costantinopoli; Capo della Casa Lascaris Comneno; Despota di Nicea e della Bitinja; erede Porfirogenito dei Nemanja Paleologo; Pretendente all’imperiale trono di Bisanzio e di erede della dinastia del Sacro Impero di Oriente ovvero dell’Augustissima Comnenia dei Principi Lascaris, che si ricongiunge all’imperatore Costantino il Grande, nonché la capacità di compiere atti di sovranità quale Porfirogenito e continuatore di una Augusta Stirpe già Sovrana ( e per di più spodestata senza debellatio, che, oltre a conferire gradi cavallereschi dell’Ordine del suo patronato, concede anche titoli nobiliari e di volontaria giurisdizione ).

La Pretura, in tale sentenza osservò altresì, a proposito della tesi della continuità delle prerogative delle Famiglie Sovrane ( Famiglie da molto tempo spodestate dei loro Troni ), che la prerogativa cosiddetta regia è una prerogativa jure sanguinis che ha solo il Re e Principe sul Trono, che trasmette ai suoi successori anche quando, per vicende varie, vengono privati del possesso territoriale e che si conservano nei secoli anche quando la dinastia ha perduto praticamente il Trono ed è stata deposta legalmente. Si arguisce – continua la sentenza – che il Capo della Casa Lascaris, discendente dalla dinastia dei Flavio Comneno Ducas estromessa con la forza, conserva anche in esilio tutte le prerogative dei Sovrani Regnanti e può compiere ogni atto che gli compete, e gli atti che egli compie hanno valore giuridicamente.

Altro estratto proviene dalla sentenza 27-06-1949, n. 114, n. 217/49 R. G., della pretura di Vico del Gargano, che riconobbe che la famiglia imperiale dei Lascaris Comneno Flavio Angelo Lavarello Ventimiglia di Turgoville, impersonata da S. A. I. Don Marziano, Basileus Titolare di Bisanzio, può conferire investiture nobiliari, avvegnaché le Dinastie destituite con la forza conservano intatte tutte le loro prerogative e quindi esse di pieno diritto possono concedere titoli nobiliari ai loro fedeli o alle persone degne e meritevoli; quello che giova e sorregge – osserva la sentenza – è il decreto di nomina, cioè l’atto potestativo di conferimento; per conseguenza come del resto riconosciuto in altri casi dalla Magistratura italiana ( cfr. Ordinanza 28 maggio 1947 del Tribunale di Napoli ) la Dinastia Lascaride Angelica Flavia Comneno Ducas, estromessa con la forza dai fastigi del potere imperiale, conserva tutte le prerogative dei sovrani regnantifoto di Francesco Maria Mariano d’Otranto.

L’araldica, la nobiltà, la Cavalleria benché oggi non abbiano certamente l’importanza e il concetto che avevano nel medioevo, non devono essere per questo neglette e tanto meno disprezzate. Gli studi storico-araldici hanno fatto e fanno sempre nuovi progressi. Chi vorrebbe negare che in virtù della storia, degli stemmi, dei titoli nobiliari e della genealogia &c. si è conservata e tramandata tanta e tanta storia famigliare e di Patria? Chi ha solo un pochino di sentimento nell’amare la beltà del tempo che fu, di assaporare quei profumi ancora presenti in tantissimi magnifici luoghi della nostra penisola, non apprezza forse le originali ed eleganti bellezze che ci sono state tramandate a mercé della formazione di queste scienze, gesta e virtù?

Osserviamo attentamente certe armi, la fauna e la flora che hanno sempre gaiamente accompagnato e intrecciato genialmente gli stemmi, sia che rompessero le lugubri tetre e oscure mura di un Castello, oppure adornassero lo scudo del guerriero, avente nel mezzo le insegne nobiliari della casa quale valente artefice, cesellate o facessero corona al poetico nodo d’amore. Dall’XI al XVI secolo l’araldica fu in grande onore; poi cadde quasi in oblio, e solo nel XIX secolo risorse nuovamente, per merito di uomini dediti agli studi archeologici che videro sui monumenti, sulle splendide decorazioni delle cattedrali, sulle umili chiese di villaggi, sugli artistici tesori dei Municipi, nelle Gallerie, nei Palazzi, sulle tombe, nei mausolei, sugli arazzi, &c., &c., tanta importante storia che attendeva l’esumazione dagli studiosi di storia-Patria.

Noi dal lontano 1948, come Istituto Culturale per la ricerca e la tutela dei Valori Storici, Genealogici, Nobiliari, di Pretensione e Cavallereschi, coordiniamo tali peculiarità di sentimenti ed esponiamo in forma tale da muovere interesse e desiderio di sapere anche le alternanti vicende dei nostri avi e cosi rinnovare antiche virtù.

Conoscendo l’arte del blasone si ha in mano una chiave, con la quale si possono aprire molte porte riguardanti fatti storici che non sarebbe possibile discernere altrimenti.

E’ un’arte geniale, ingegnosa, una scienza esatta, e quello che maggiormente deve poi invogliare noi tutti ad approfondirla, è la sua universalità.

Abbiatemi.
Don Francesco Maria Mariano DUCA D’OTRANTO